Crisi da Sovraindebitamento L.n.3/2012

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I guasti partono ancora dalla leva finanziaria

Ricorda molto la crisi del credito del 2007-2008 la presente situazione. E sebbene la marea di un nuovo incipiente disastro possa ancora essere arginata dalla determinazione dei politici del Vecchio continente e soprattutto dalla volontà di quelli tedeschi, questa volta potrebbe essere anche peggio.
I contorni della crisi sono assai simili a quelli già visti nel dopo Lehman. C'è una forte contrazione della liquidità sui mercati finanziari, si sono quasi ingessati gli scambi sui titoli di stato, è iniziata una sorta di fuga dalle azioni che continuano ad essere il mercato più liquido, si rincorrono le voci di primary dealer (le grandi banche d'affari) che pretendono margini di garanzia più alti dai loro clienti. Infine gli hedge fund, che sono gli investitori più rapidi a percepire i cambiamenti, hanno iniziato a liquidare le posizioni.

Anche parecchi sintomi sono ricorrenti: le banche europee cominciano ad aver problemi nel reperire i fondi e si rivolgono con più insistenza alla Bce, come suggerisce uno studio di UniCredit; i tassi interbancari, come pure Euribor e Libor, sono in rialzo a dimostrazione che tra le banche cresce la diffidenza a prestarsi vicendevolmente denaro; gli investitori cercano rifugio nei titoli considerati più sicuri (come il Bund tedesco o il T-bond Usa) e aumenta la propensione a parcheggiare denaro nei titoli di liquidità, come lo Schatz a 2 anni europeo i cui rendimenti sono caduti allo 0,45%. Poco più di un mese fa erano ancora all'1%, in linea quindi con il tasso della Bce. Nel 2008-2009 era accaduto qualcosa di simile con i T-bill Usa a uno e 3 mesi, i cui rendimenti erano addirittura diventati negativi. Pur di mettere al sicuro la liquidità, gli investitori (leggi, soprattutto, le banche) sono disposti a sacrificare anche i guadagni.
Nonostante le borse siano in ribasso da oltre un mese, la marea di una nuova crisi del credito è ancora nella fase iniziale: quella in cui gli investitori non stanno ancora liquidando pesantemente le attività finanziarie, ma cercano di proteggere i portafogli vendendo i future sui titoli di stato, quelli sugli indici di borsa e anche quelli sulle materie prime. Ma se si lascia montare la marea, i rischi diventano ancora peggiori di due anni fa. Per due motivi: perché, se allora c'erano i governi pronti a salvare banche e società finanziarie sull'orlo del fallimento, ora gli stati sono incapaci di agire dopo essersi fatti carico dei debiti del sistema; e perché la leva finanziaria del sistema è probabilmente ancora più grande di prima. Soprattutto le banche (e non gli hedge fund su cui si vorrebbe scaricare la colpa di ogni disastro) sono più indebitate di un tempo.

Rispetto a tre anni fa, c'è meno carta costruita sui mutui casa nei loro portafogli (o comunque meno subprime), ma i nuovi titoli tossici rischiano di essere adesso proprio i tranquilli titoli di stato. Lasciamo perdere quelli greci che i subprime li possono ricordare. Il fatto è che anche le attività più sicure possono diventare tossiche: succede lo stesso con i buoni funghi porcini se li si assume in grandi quantità. E di titoli di stato le banche, specie alcuni istituti tedeschi di piccola e media grandezza, hanno fatto incetta da un anno a questa parte. Considerati liberi da rischio nella generale convenzioni degli investitori e senza rischio pure dai principi contabili di Basilea, al punto da non richiedere ratio patrimoniali aggiuntivi per chi li compera, i titoli sovrani sono finiti in abbondanza nei portafogli degli istituti di credito finanziati con la liquidità presa a prestito dalle banche centrali a tassi quasi a zero. Ci si indebita a breve all'1% e s'investe al 3% e oltre in titoli a lunga scadenza: due punti di guadagno senza alcuna fatica e nella convinzione di non correre rischio. Così, la facilità del gioco ha spinto alcuni istituti a indebitarsi per oltre 50 volte il patrimonio.

Invece il rischio c'era. O, meglio, il rischio, pur piccolo in generale, s'è moltiplicato per enne volte in proporzione alla leva finanziaria, innescato dalla Grecia e dai titoli portoghesi, irlandesi e spagnoli le cui quotazioni sono scese a partire da novembre. Del resto basta guardare ai bilanci della banche per capire come queste fanno i soldi. Negli Stati Uniti e in Europa, il 50-75% dei profitti arriva dal trading sul reddito fisso: in sostanza significa indebitarsi a breve per comperare titoli a lunga scadenza, una prassi che fino a 20 anni fa sarebbe stata considerata folle. Si aggiunga che l'euforia aveva colto anche il mercato dei bond societari (solo per quelli a miglior rating i rendimenti sono saliti in un mese di quasi 45 centesimi, quindi è sceso sensibilmente il valore) e quelli delle materie prime, e si capisce come l'urgenza di fare un poco di liquidità abbia finito per far grippare il mercato.

In settimana il pretesto dei crolli di borsa sono state le disposizioni tedesche sulle vendite allo scoperto, di per sè assai ragionevoli nei contenuti, ma assai meno nel modo in cui sono state attuate. È tuttavia evidente che se i mercati finanziari hanno bisogno di una maggior regolamentazione, sono proprio le banche e le società finanziarie a necessitare di una nuova disciplina. O si impongono limiti al loro indebitamento oppure si devono pretendere requisiti patrimoniali sufficientemente alti da scoraggiare gli eccessi speculativi.
In settimana l'S&P ha perso il 4,2% (-5,0% il Nasdaq) e lo Stoxx il 4,6% (-3,8% Francoforte e Londra, -3,6% Parigi e appena l'1% Milano). I mercati emergenti sono caduti di quasi l'8%.

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