Appostazione a sofferenza da parte dell’istituto di credito alla centrale rischi: la valutazione dell’intermediario deve accertare un obiettivo stato di insolvenza.
La banca non può mettere a sofferenza il proprio correntista, segnalandolo alla cosiddetta “Centrale Rischi”, solo dopo una sommaria valutazione, quasi dal carattere punitivo e ricattatorio, in caso di semplice ritardo nel pagamento del debito. Al contrario, la valutazione dell’intermediario deve verificare la sussistenza di una obiettiva crisi di liquidità come anticamera del fallimento.
Non basta, dunque, una situazione di difficoltà transitoria e momentanea, più che altro frutto di una crisi finanziaria dovuta a una mancata coordinazione tra entrate e uscite.
Questo principio è stato più volte ribadito dai giudici, nelle normali aule di tribunali. Ma a dirlo, di recente – cosa ancora più interessante – è stato lo stesso Arbitro Bancario Finanziario, in una sentenza [1] dai toni molto severi.
Secondo l’ABF, l’appostazione a sofferenza implica una valutazione da parte dell’intermediario della complessiva situazione finanziaria del cliente e non può scaturire automaticamente da un semplice ritardo di quest’ultimo nel pagamento del debito. Tale valutazione, come richiesto dalla normativa vigente, deve quindi accertare uno stato di insolvenza dello stesso, cioè una condizione di incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. In pratica si deve trattare di uno stato di insolvenza non transitorio e non facilmente reversibile [2].
Dunque, non si può dar rilievo al semplice ritardo nel pagamento di un debito. Eppure si registrano numerosi casi in cui le illegittime segnalazioni alla centrale rischi vengono effettuate con finalità strumentali, al solo scopo di esercitare una “pressione” sul cliente che avanzi delle semplici rimostranze in ordine all’esistenza ed entità del credito. Tuttavia, quando la concreta situazione del correntista – sia pure inadempiente – non crei alcun allarme quanto alla sua generale solvibilità, non vi è ragione di creare un pregiudizio per la sua immagine commerciale e anzi, un diverso comportamento, sarebbe sanzionabile sul piano della responsabilità civile [3].
Nel caso in cui il giudice accerti l’illegittimità della segnalazione scatta, nei confronti della banca, la sanzione per l’illegittimo trattamento dei dati del cliente (avvenuto, appunto, con la comunicazione del nominativo del cliente medesimo in sofferenza alla centrare rischi). Così, a quest’ultimo, spetta un risarcimento dei danni [4] con possibilità di ottenere, altresì, la rettifica o la cancellazione della segnalazione erroneamente effettuata.
Sarà però necessario che il correntista dimostri, in causa, l’insussistenza di tale stato di insolvenza, offrendo le prove della propria capacità di saldare tempestivamente il passivo sul conto segnalatogli dalla banca e, quindi, dell’insussistenza di uno stato conclamato di insolvenza.
La tutela
A completamento dell’argomento si segnala una interessante ordinanza del Tribunale di Verona [5] secondo cui, in tali casi, l’avvocato che voglia difendere il correntista non deve agire con il ricorso cautelare d’urgenza previsto dall’articolo 700 del codice di procedura civile, ma deve procedere con un ricorso ordinario secondo la procedura prevista per le cause in materia di lavoro: ciò discende da una esplicita previsione del codice della privacy [6], posto che le illegittime segnalazioni alla centrale rischi rientrano proprio in tale materia.
[1] ABF sent. n. 1667 del 27.03.2013.
[2] Trib. Trento, sent. n. 289 del 15.04.2011.
[3] Trib. Napoli, ord. del 14.10.2004.
[4] Ex art. 11 Dlgs. N. 196/2003.
[5] Trib. Verona, ord. del 30.10.2012: “Deve ritenersi inammissibile il ricorso al procedimento d’urgenza a carattere residuale di cui all’art. 700 c.p.c. per reagire a violazioni del codice della privacy, quale l’erronea o scorretta segnalazione a sofferenza del proprio nominativo nella Centrale rischi della Banca d’Italia, in considerazione dell’esistenza del rimedio cautelare tipico previsto dal combinato disposto degli artt. 10 e 5, D.Lgs. n. 150 del 2011 (in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione)”.
[6] Artt. 10 e 5, D.Lgs. n. 150 del 2011: “1. Le controversie previste dall’articolo 152 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, sono regolate dal rito del lavoro, ove non diversamente disposto dal presente articolo.
2. E’ competente il tribunale del luogo in cui ha la residenza il titolare del trattamento dei dati, come definito dall’articolo 4 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.
3. Il ricorso avverso i provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali è proposto, a pena di inammissibilità, entro trenta giorni dalla data di comunicazione del provvedimento o dalla data del rigetto tacito, ovvero entro sessanta giorni se il ricorrente risiede all’estero.
4. L’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato può essere sospesa secondo quanto previsto dall’articolo 5.
5. Se alla prima udienza il ricorrente non compare senza addurre alcun legittimo impedimento, il giudice dispone la cancellazione della causa dal ruolo e dichiara l’estinzione del processo, ponendo a carico del ricorrente le spese di giudizio.
6. La sentenza che definisce il giudizio non è appellabile e può prescrivere le misure necessarie anche in deroga al divieto di cui all’articolo 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E), anche in relazione all’eventuale atto del soggetto pubblico titolare o responsabile dei dati, nonché il risarcimento del danno”.