Crisi da Sovraindebitamento L.n.3/2012

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span style="font-family: book antiqua,palatino;">h1>Il secondo salvataggio della Grecia


Il salvataggio della Grecia costerà sicuramente più di 160 miliardi di euro, senza considerare l’intervento da 110 miliardi di euro del maggio 2010. Un salasso insomma che però dovrebbe mettere in sicurezza l’Eurozona. Il condizionale è d’obbligo perché sui mercati pesano le incertezze sul debito statunitense e sul nuovo accordo per l’innalzamento della soglia di indebitamento massima consentita e per il taglio delle spese da collegare al provvedimento. I mercati si interrogano poi anche sulla tenuta complessiva dell’Eurozona e sulla necessità o meno di incrementare la dotazione del fondo Salva-stati Efsf da 440 miliardi di euro. L’ombrello posto sull’Europa dall’intervento del 21 luglio è comunque una pietra miliare che segna l’inizio di un percorso destinato a cambiare, in un modo o nell’altro, il volto stesso dell’Europa.

I capi di Stato e le istituzioni europee con un comunicato del 21 luglio 2011 hanno promosso un salvataggio della Grecia che, per la prima volta nell’Eurozona, coinvolgerà le istituzioni private.

La decisione di banche e assicurazioni globali che controllano i bond greci sul mercato è ufficialmente volontaria, ma sarebbe fuorviante tralasciare le ipotesi di tassazione straordinaria degli istituti di credito circolate nei giorni precedenti l’accordo. Di certo, insomma, le pressioni degli stati sui grandi istituti finanziari non sono mancate. D’altra parte la situazione greca è drammatica e si riassume in tre numeri: attualmente il debito di Atene è di circa 370 miliardi di euro, cioè supera il 140% del Pil ed è “gestito” con un deficit intorno al 10% dello stesso Prodotto interno lordo. Cosa prevede allora il piano di salvataggio?

  • Gli stati dell’Eurozona e le istituzioni europee metteranno a disposizione 106 miliardi di euro di finanziamenti con scadenze comprese tra i 15 e i 30 anni e un periodo di “tregua” per la Grecia dai versamenti di 10 anni.
  • Previsto anche un altro intervento pubblico diretto di 12,6 miliardi di euro nel riacquisto (buy back) di titoli del debito pubblico greco promosso dall’Efsf (il fondo Salva Stati Ue) sul mercato secondario.
  • I privati sono chiamati a un intervento di 37 miliardi di euro che dovrebbe crescere a 50 miliardi nel 2011-2014 e a 106 miliardi di euro complessivi fra il 2011 e il 2019.

Il ruolo dei privati rappresenta quindi il perno della nuova manovra e un forte segnale di discontinuità rispetto alla gestione che finora si è avuta della crisi finanziaria globale. I salvataggi delle banche statunitensi o britanniche, tedesche ed olandesi sono stati sempre promossi con denaro pubblico; in misura più ridotta anche in Italia i Tremonti bond (così come gli incentivi al settore automotive e l’impiego senza precedenti della Cassa integrazione) hanno visto gli stati impegnati nel salvataggio dei privati.

La crisi del debito sovrano europeo e quella contemporanea del debito degli Stati Uniti dimostrano che adesso il problema si è spostato nei bilanci pubblici. Il problema dalla situazione patrimoniale delle banche e delle grandi industrie come quella dell’automobile si sposta nel bilancio degli stati e i più fragili inviano segnali di cedimento. Il mercato del debito sovrano diventa un sorvegliato speciale. Ogni giorno vengono scandagliati gli spread, i rendimenti, le aste dei titoli di stato e in particolare di quelli dell’Europa periferica, di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia.

Con il nuovo salvataggio i privati sono chiamati a una perdita di circa un quinto del capitale atteso alla scadenza sui bond greci. Proprio i tassi d’interesse dei finanziamenti forniti alla Grecia per farla uscire dalla crisi di liquidità attuale sono una chiave fondamentale del complesso sistema di salvataggio europeo. I tassi forniti dal Fondo di Salva-Stati possono, infatti, scendere fino al 3,5% e avvicinarsi dunque al costo del funding dello stesso Fondo.

L’Istituto della Finanza Internazionale (IIF, ossia l’associazione globale dei soggetti finanziatori) ha calcolato che l’intervento privato dovrebbe comportare un finanziamento da 54 miliardi di euro entro la metà del 2014 e potrebbe raggiungere i 135 miliardi di euro entro il 2010. I tassi sono compresi fra il 4 e il 5% entro il 2030.

In pratica cosa succederà a quel 90% circa di creditori privati che sulla scorta delle indicazioni dell’IIF dovrebbe volontariamente accettare la soluzione europea?

Il debito greco che prima aveva scadenza entro 7 anni e mezzo al massimo avrà una scadenza spostata in una forchetta tra i 15 e i 30 anni con un periodo “di tregua” di 10 anni.

I vari bond greci saranno scambiati con un mix di quattro possibili bond con emissione alla pari o sotto la pari e con scadenze a 15 o a 30 anni. Lo strumento finanziario trentennale (che copre tre delle quattro possibilità offerte al mercato) è interamente garantito da bond zero-coupon con rating AAA (il massimo).

1.      Il primo bond alla pari (Par Bond Exchange) garantisce tassi di interesse che passano dal 4% dei primi cinque anni al 4,5% dei successivi cinque anni e dunque al 5% del periodo tra l’undicesimo e il trentesimo anno. In pratica è come se questi strumenti avessero un tasso fisso del 4,5%.

2.      Il secondo bond (Par Bond offered at par value) ha gli stessi interessi del precedente ed è alla pari. In pratica è come se questi strumenti avessero un tasso fisso del 4,5%.

3.      E’ poi prevista l’emissione di un bond sotto la pari (Discount Bond Exchange) all’80% del valore nominale: in questo caso i tassi sono fissati al 6% nei primi 5 anni, al 6,5% nei successivi 5 e al 6,8% negli anni fra l’undicesimo e il trentesimo. In pratica è come se questi strumenti avessero un tasso fisso del 6,42%.

4.      I capi di Stato Ue hanno infine previsto un Discount Bond Exchange emesso all’80% del valore nominale con una copertura assicurativa parziale costante per 15 anni che copre l’80% delle perdite fino a un massimo del 40% del nuovo nominale. In pratica è come se questi strumenti avessero un tasso fisso del 5,9%.

Tutti gli strumenti sono garantiti da bond zero coupon AAA acquistati con fondi dell’Efsf e si suppone che siano distribuiti in un mix sostanzialmente equilibrato tra tutti e quattro fra i risparmiatori e le banche cha hanno sottoscritto il debito greco (“equal proportion of 25% of total participation”). In pratica tutti i nuovi strumenti forniscono un risultato identico: sui bond greci detenuti oggi dai privati sarà da registrare alla scadenza una perdita del 21% del valore attuale netto (NPV-Net Present Value o VAN in sigla) calcolato con un tasso di rendimento interno del 9 per cento. Il tasso del 9% ipotizzato è giustificabile con gli elevati tassi di interesse raggiunti oggi dai titoli del debito greco.

Il 25 luglio Moody’a ha tagliato il rating sul debito greco da Caa1 a Ca con outlook “developing”: in soldoni questo significa che i bond sul debito sovrano di Atene sono in default con qualche prospettiva di recupero, i gradini (notch) che distanziano questi titoli dall”investment grade” (rating Baa3 almeno), ossia dall’investimento non speculativo, sono almeno nove.

Il 27 luglio a mercati chiusi Standard & Poor’s riduce ulteriormente il rating sul debito greco a CC con outlook negativo, confermando C sul debito di breve e ribadendo il default selettivo previsto con l’intervento europeo annunciato in precedenza. Nel momento in cui sono cambiate le condizioni del prestito per via dell’adesione “volontaria” dei bondholder era diventata scontata una bocciatura al grado di “default selettivo” dei titoli del debito greco.

Per quanto riguarda infine gli investimenti in Credit Default Swap sui titoli di Atene invece non sono scattati i risarcimenti. L’ISDA, l’Associazione internazionale cui fa riferimento il mercato dei derivati e quindi dei CDS che assicurano contro il default degli stati, ha deciso che le condizioni particolari in cui si verifica la ristrutturazione del debito greco e le garanzie dell’Efsf fanno sì che non intervenga il “credit event” necessario allo scatto dei risarcimenti sulle esposizioni nette in CDS per 4,8 miliardi di dollari sul debito sovrano greco. Gran parte di queste posizioni hanno come controparte grandi banche americane che hanno gioito della decisione dell’ISDA di distinguere fra il default dichiarato dalle agenzie e quello dichiarato dalle nazioni che è il solo a fornire il “credit event”. In pratica per l’investitore non cambia tantissimo, i nuovi distinguo tra “default degli stati” e “default delle agenzie” rischiano però di proiettare nuove incertezze sui mercati.

 

 

Gli effetti sul mercato obbligazionario

 

Il tentativo di salvare l’Eurozona da una spaccatura senza ritorno e di scongiurare il default di buona parte dei suoi stati membri alla fine di settembre  2011 appare sempre più arduo.

Di fronte alla crisi del debito sovrano i mercati hanno trovato un’Europa debole e divisa, un’unione monetaria che non è ancora né economica né politica e che quindi rischia di risolversi in un fallimento.

Appare chiaro che senza una comune politica fiscale e senza una regia economica unitaria il sogno del Vecchio Continente rischia di trasformarsi in un incubo sia per le piccole economie come la Grecia o l’Irlanda, che per la Spagna e l’Italia e forse in ultima analisi anche per la fortissima Germania.

La forte crescita dei rendimenti del debito pubblico ha imposto diversi interventi all’Europa, ma, nonostante due salvataggi della Grecia e altri finanziamenti alle economie periferiche, anche l’Italia è finita nel mirino della speculazione globale e ha dovuto varare due manovre finanziarie in rapida successione per tentare di azzerare il deficit entro il 2013 e arginare il peso di un debito pubblico ormai intorno al 120% del Pil.
Come contropartita la Bce (la Banca centrale europea) ha iniziato a comprare il debito pubblico italiano sui mercati secondari in modo da calmierarne i rendimenti cresciuti vorticosamente negli ultimi mesi. Una mano lava l’altra insomma.

Questo intervento, sulla falsariga di quelli precedenti, ha confermato l’opinione di quanti hanno previsto una graduale unificazione del debito pubblico sovrano europeo che permetterebbe a tutti gli stati membri di garantire solidalmente per ciascuna delle nazioni dell’Unione. 
Secondo alcuni analisti, infatti, gli Eurobond sarebbero un passo importante verso quel consolidamento fiscale ed economico dell’Eurozona che ancora manca.

Oggi come oggi, però, le barriere politiche a questa ipotesi sembrano ardue, se non addirittura insormontabili.

I no del presidente francese Nicolas Sarkozy e del cancelliere tedesco Angela Merkel appaiono granitici e senza il via libera delle due principali economie del Vecchio Continente sembra difficile che si giunga a qualcosa di fatto.

Un recente sondaggio condotto da Emnid N24 circa tre tedeschi su quattro sono contrari agli Eurobond e solo il 15% sarebbe in loro favore. Come può un leader già politicamente in forte crisi come Angela Merkel sfidare così l’opinione pubblica del proprio Paese? E come potrebbe procedere l’Europa in questa direzione senza il via libera della propria principale economia? Né dall’altra parte del Reno il popolo francese è particolarmente entusiasta all’idea di garantire per le altre economie più fragili...

Eppur si muove. Qualcosa tuttavia succede e diversi segnali forniscono indizi, percorsi, progetti che sembrano in qualche maniera procedere. Il 23 agosto 2011 l’ex premier Romano Prodi e l’economista Quadrio Curzio avanzano una proposta concreta per la creazione di EuroUnionBond e suggeriscono il conferimento da parte degli stati membri delle proprie riserve auree e di altri asset pubblici a un fondo che potrebbe così emettere titoli per 3 mila miliardi di euro e rilevare 2.300 miliardi di euro di titoli del debito pubblico di varie nazioni europee abbassando in concomitanza il debito medio dell’Unione monetaria dall’85 al 60%.

Il resto delle risorse andrebbe alle infrastrutture Ue e la leva del fondo sarebbe di 3 a 1. Per l’Italia si tratterebbe di mettere in gioco partecipazioni pubbliche importantissime come Eni, Enel, Finmeccanica, Poste e altre ancora.

Molti osservatori si mostrano però riluttanti di fronte a questa ipotesi, ma la proposta di un ex Presidente della Commissione Europea ed ex premier della terza economia dell’Eurozona non può essere passata sotto silenzio e in effetti all’indomani della lettera sui nuovi bond le opposizioni di Francia e Germania firmano in parallelo dei documenti che sostengono il ricorso agli Eurobond.

In autunno sono previste riunioni del Consiglio europeo e della Commissione, ma, come ammette un altro sostenitore dei bond europei ed ex premier italiano – Giuliano Amato: “L’Eurobond senza la Germania non si può fare”.

D’altronde la chiusura tedesca a queste ipotesi è rigida, ma non assoluta, e il governo tedesco si è mostrato disposto a ragionare in futuro su questo tema dopo un risanamento sostanziale delle finanze pubbliche dell’Eurozona più a rischio. Un’unificazione del debito senza un’armonizzazione delle politiche fiscali appare inoltre a molti assolutamente impraticabile.

Nel frattempo le manovre europee continuano a dimostrarsi poco efficaci o temporanee. Neanche il Fondo Salva Stati (Efsf) è attualmente in grado di coprire le necessità di paesi come l’Italia o anche soltanto la Spagna. Come fanno 440 miliardi di euro di finanziamenti potenziali dell’European Financial Stability Facility (di cui già 256 miliardi già impegnati in Grecia, Irlanda e Portogallo) a garantire 1.900 miliardi di euro di debito italiano o gli oltre 660 miliardi di euro di debito della Spagna?

In questo l’unificazione del debito europeo porterebbe un indubitabile vantaggio consistente nell’abbattimento medio del costo del debito pubblico Ue e nella presenza di garanzie concrete e misurabili contro le esposizioni dei paesi membri. D’altra parte l’avvio di acquisti massicci di tranche del debito pubblico italiano da parte della Bce sta per il momento ottenendo dei risultati.

Complice la scarsa liquidità di agosto i titoli di stato BTP e Bund hanno in pratica annullato la propria divergenza nell’ultimo mese.

Se prima insomma il decennale italiano scendeva mentre il Bund tedesco saliva ora i prezzi dei due titoli di debito salgono quasi in parallelo. Questo fenomeno secondo gli operatori è però in gran parte dovuto alla Bce e ai suoi interventi sul mercato secondario del nostro debito pubblico a seguito del commissariamento del Bel Paese e del suo forzoso piano di rientro dal deficit anticipato al 2013.

Già dal maggio dello scorso anno la Bce ha infatti avviato un programma di acquisto di titoli sul mercato (Securities Markets Programme) che avrebbe l’obiettivo di stabilizzare i mercati e attenuare le turbolenze dell’attuale crisi. Con maggiore decisione e maggiori risorse potrebbe essere paragonato in parte al Quantitative Easing della Fed, in pratica però è uno strumento di intervento limitato e usato con estrema prudenza. D’altra parte l’unico vero obiettivo della Bce è quello di controllare l’inflazione e non anche quello di promuovere lo sviluppo come nel caso degli Stati Uniti.

In ogni caso, in base ai dati comunicati il 22 agosto del 2011, la Bce ha finora acquistato asset per 110,5 miliardi di euro e nella settimana al 19 agosto circa 14,3 miliardi di euro di attività (erano 22 miliardi la settimana precedente).

A voler ridurre tutto alla fiducia, che poi – come noto – è il vero motore dei mercati: la Bce ha mostrato di credere nei titoli italiani, spagnoli e del resto dell’Eurozona in questo periodo (anche se non ha pubblicato i dati deconsolidati dei singoli investimenti). A questo segnale di fiducia ottenuto con difficoltà dal duo Francia-Germania a seguito di forti impegni dell’Italia non è detto che seguano altri segnali. La proposta di un doppio euro divide gli analisti e a molti osservatori appare di difficile attuazione e un po’ “farraginosa”. L’unione del debito difficilmente otterrà un via libera prima del difficile risanamento dei conti pubblici dell’Europa periferica. Questa messa in sicurezza dei conti pubblici rimane quindi ancorata al mercato e agli umori dei vari soggetti europei come la vendita di grossi quantitativi del debito greco (anche dopo il secondo salvataggio) dimostra. D’altra parte se anche la Finlandia chiede garanzie aggiuntive e il coinvolgimento dei privati nel piano di bailout risulta zoppicante come si possono biasimare gli operatori di mercato che vendono per evitare il rischio di un fallimento di Atene?

Come un serpente che si morde la coda, il circolo della crisi si allarga così anche alla Francia che nelle ultime settimane si è dovuta spendere per ottenere la fiducia dei mercati e la riaffermazione della tripla A per il proprio rating nonostante i suoi stretti legami con l’Italia e la mancanza di una fiducia degli operatori paragonabile a quella della Germania.

Piano piano insomma la crisi testa tutte le economie dell’Eurozona e chiede interventi crescenti che in qualche caso rischiano di appesantire la ripresa e creare nuovi problemi. I mercati obbligazionari ne risentono come dimostrato anche dalla fuga di capitali verso i T-bond, i buoni del Tesoro americano che, nonostante i forti dubbi sull’Economia a Stelle e Strisce e la perdita della tripla A di S&P’s riscoprono il proprio ruolo di asset rifugio e nella seconda metà di agosto registrano un ribasso record  dei rendimenti sotto il 2 per cento. Sicuramente gli investimenti della Cina aiutano, neanche le incertezze europee – però – fanno male.

 

 

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