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Servono più corporate bond per uscire dal bancocentrismo

Servono più corporate bond per uscire dal bancocentrismo

La crescita passa anche per il mercato dei corporate bond. Per il Governatore Visco, serve un più ampio sviluppo dei mercati dei capitali: per le imprese, soprattutto per quelle sottocapitalizzate, la stretta dipendenza dal credito bancario quale «fonte pressochè unica di finanza esterna» è un freno alle potenzialità di sviluppo. Il problema, a ben vedere, è europeo perchè l'Europa continentale tutta è bancocentrica rispetto al modello americano e anglosassone dove il mercato dei capitali e dei corporate bond è molto sviluppato. Il "deleveraging" imposto a banche e Stati non potrà che accelerare la crescita del mercato dei capitali in Europa e Italia.
In Italia, basta veramente poco per aumentare i volumi dei corporate bond che al momento sono ridicoli per un Paese tra i più industrializzati al mondo. Nella relazione annuale della Banca d'Italia il dato sulle emissioni nette di obbligazioni a medio e lungo termine delle imprese italiane non finanziarie è sconfortante: si è passati dai 14,5 miliardi del 2009 ai 12,4 del 2010 e, nel 2011, a emissioni nette negative per 534 milioni. L'anno scorso sono stati registrati 7 miliardi di emissioni lorde concentrate (per quattro quinti) in quattro società (Eni, Pirelli, Telecom Italia e Terna).
Le consistenze dei corporate bond italiani (escluse le obbligazioni di banche e di istituzioni finanziarie) non arrivano a 90 miliardi, equivalenti al 6% del Pil, contro gli 873 miliardi delle banche e i 240 miliardi di altre istituzioni finanziarie.

Collocare sul mercato un corporate bond, oppure un high yield bond, equivale alla richiesta di un prestito. Alle imprese viene quindi richiesto un grande sforzo di trasparenza, nella presentazione dei bilanci ma anche nell'enunciare prospettive di crescita e di strategia aziendale. Quella stessa difficoltà che provano molte aziende medie e medio-piccole nell'accogliere le richieste di trasparenza delle Borse azionarie o dei fondi di private equity potrebbe frenare il ricorso ai corporate bond o high yield bond, mercati chiusi tra l'altro a chi non si dota di rating.
A complicare le prospettive di un ampio sviluppo del mercato dei capitali in Italia contribuisce anche la falsa partenza delle obbligazioni societarie. I casi dei bond Cirio e Parmalat hanno segnato, forse irreparabilmente, la fiducia dei risparmiatori nei confronti dei titoli di debito emessi da aziende che non siano blasonate come Eni oppure Enel. Servirà un ampio bacino di investitori istituzionali, anche esteri, per ampliare il mercato dei capitali. Il lavoro che resta da fare è enorme: tutti dovranno impegnarsi, banche, imprese, autorità di vigilanza e investitori.

 

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FINANZA

Corporate bond “high yield” la carta contro il credit crunch

FINO A POCHI ANNI FA QUESTO MERCATO ERA RISERVATO SOPRATTUTTO ALLE GRANDI IMPRESE,QUELLE COSIDDETTE INVESTMENT GRADE, OVVERO SOCIETÀ CHE HANNO ALMENO UN RATING TRIPLA B. MA DA TRE ANNI CI SONO PIÙ INVESTITORI ANCHE PER AZIENDE CON RATING INFERIORE

Adriano Bonafede

Lo leggo dopo

Roma Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, lo ha detto chiaro a tondo alle imprese nell’ultima relazione annuale: «I bassi livelli di patrimonializzazione e la stretta dipendenza dal credito bancario quale fonte pressoché unica di finanza esterna rappresentano un elemento di fragilità nel breve termine, un freno alle potenzialità di sviluppo». Tutti hanno letto queste parole come un incoraggiamento a utilizzare l’emissione di corporate bond, una fonte di finanziamento per ora seguita soltanto dalle grandissime imprese come Fiat, Enel, Eni e poche altre. Ma in realtà la platea dei possibili emittenti di bond corporate è molto più ampia. Secondo Banca Imi, sono almeno una trentina le aziende italiane, quotate ma anche non quotate, che potrebbero cimentarsi nell’emissione di obbligazioni, traendo così vantaggio dall’esistenza di tanti investitori istituzionali pronti a investire in questo genere di strumenti finanziari. Un bene anche per le banche, alle prese in questi ultimi anni con profondi processi di ristrutturazione e anche di riduzione dello stock del credito al fine di aumentare il proprio livello di patrimonializzazione richiesto da Basilea 3. Ma con benefici soprattutto per le imprese, oggi schiacciate da una durata troppo breve dei finanziamenti bancari. È stato lo stesso Governatore a ricordarlo: «In Italia il 38 per cento dei prestiti alle aziende ha durata non superiore ai 12 mesi: la quota è del 18 per cento in Germania e in Francia, del 24 nella media dell’area dell’euro. La maggior dipendenza dal debito a breve termine espone le imprese italiane a più elevati rischi di rifinanziamento, restringe l’orizzonte temporale degli investimenti». I corporate bond, invece, hanno durate pluriennali che consentono di distendere in un periodo di tempo più lungo i piani d’investimento delle imprese. Fino a pochi anni fa questo mercato era riservato soprattutto alle grandi corporate, «quelle cosiddette investment grade, ovvero società che hanno almeno un rating tripla B», dice Andrea Pescatori, ad di Ver Capital sgr. «Ma da tre anni ha cominciato a svilupparsi anche in Europa il mercato dei cosiddetti corporate bond 'high yield', destinato a imprese che hanno rating BB o B.

Questo mercato ha vivacchiato per tutti gli anni 2000 su volumi intorno ai 60 miliardi. Ma negli ultimi tre ha fatto un considerevole balzo, portandosi intorno ai 200 miliardi. Siamo tuttavia ben lontani dai livelli americani, dove il mercato ha raggiunto circa 1000 miliardi». Insomma, si è ormai creato un mercato abbastanza grande e liquido di investitori pronti a prestare soldi alle imprese. I soggetti sono fondi pensione e fondi d’investimento e strumenti analoghi. «Nell’ultimo triennio - dice Pescatori - c’è stata una rivoluzione copernicana. Prima i corporate bond Hy venivano collocati al 70-80 per cento dalle banche e dai veicoli collaterali (Clo e Cdo) creati dagli stessi istituti di credito. Oggi invece solo il 20 per cento di queste emissioni viene collocato dalle banche. Tra il 2013 e il 2014 verranno a scadenza ben 400 miliardi fra debito governativo e bond bancari: le aziende che stanno andando bene cercano di anticipare il rifinanziamento per scavalcare il muro delle scadenze». Ma le imprese risparmiano rispetto al tradizionale finanziamento bancario? «Le differenze non sono rilevanti - dice Christophe Hamonet, responsabile Dcm Corporate di Banca Imi in quanto le banche e gli investitori istituzionali prezzano il rischio di credito in modo simile. Ma ci sono altri vantaggi. I covenant bancari sono in genere meno flessibili di quelli legati ai corporate bond. Questi ultimi sono studiati per proibire alla società alcune azioni o comportamenti specifici senza però essere troppo “invasivi”». Tra le imprese italiane che hanno emesso obbligazioni high yield, ci sono Wind (B1/BB-) con emissioni complessive per più di 6 miliardi di euro, Piaggio (rating Ba2/BB) che ha fatto un bond da 150 milioni nel dicembre 2009, mentre Seat Pg e Safilo hanno avuto accesso a questo mercato nel passato. Più recentemente (aprile 2011) Guala Closures (Caa1/CCC+) ha emesso un bond da 200 milioni con scadenza al 2019 e tasso al 9,375%. Anche Bormioli (B1/BB) lo scorso anno ha emesso un bond da 250 milioni con scadenza 2018 e cedola del 10%. Le imprese che potrebbero potenzialmente emettere fin da subito bond high yield sono, secondo gli intermediari, una trentina. «Le caratteristiche che deve avere una società per emettere un obbligazione High Yield - dice Hamonet - sono essenzialmente tre: emissione di almeno 200 milioni, Ebitda di non meno di 80 milioni e un rating preferibilmente superiore a B-». Nonostante queste limitazioni, esistono molte società non quotate che avrebbero le caratteristiche per emettere bond. «Ci sono tuttavia attualmente forti limitazioni di legge e fiscali per le non quotate - spiegano all’Abi - L’articolo 2014 del codice civile limita infatti la quantità di bond emessi a un massimo del doppio del capitale sociale. Mentre dal punto di vista fiscale i bond non sono detraibili per l’impresa e gli investitori devono pagare la ritenuta alla fonte del 20%». Da tempo l’Abi sta facendo pressione sul governo per cambiare la normativa. Il Mef due settimane fa ha messo in consultazione un documento che modifica sia il codice civile che il Tuf per eliminare queste disparità.

(11 giugno 2012)

 

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