Crisi da Sovraindebitamento L.n.3/2012

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Chi detiene il debito pubblico italiano
È noto a tutti che il debito italiano ha raggiunto livelli esorbitanti. Meno noto è che la metà del debito sia in mano a stranieri. E le conseguenze che questo comporta.
Nel 1837 Benjamin Disraeli scriveva che “Il debito è il padre d’una numerosa figliolanza di follie e di delitti”. In altre parole, ogni debitore, specie se di lungo corso, finisce sempre per avventurarsi in comportamenti irrazionali. Soprattutto se si tratta di uno Stato sovrano, capace di impegnare la responsabilità delle proprie generazioni future.
Uno Stato in deficit, ossia che spende più di quanto incassa, copre l’ammanco emettendo titoli di debito. È risaputo che, più il debito cresce, più lo Stato debitore incontrerà delle difficoltà nel restituirlo.
Meno ovvio è che c’è molta differenza se i creditori sono i propri cittadini o soggetti stranieri. Fino a poco tempo fa i titoli di Stato erano la forma d’investimento in cui confluivano i risparmi delle famiglie. Secondo la Banca d’Italia, nel 1995 il 90% del debito pubblico era nelle mani di investitori italiani.
La storia economica ci insegna che, dall’Illuminismo in poi, questo rapporto ha rappresentato il più forte legame tra gli Stati e i loro popoli nelle nazioni democratiche. Ciò perché i cittadini, essendo creditori dello Stato, erano cointeressati alla gestione delle finanze pubbliche. E lo Stato, dal canto suo, era in un certo senso “obbligato” a fare buon uso dei fondi introitati attraverso il debito. Gli interessi di governanti e governati finivano così per coincidere.
In Italia, dove più di ogni altro Paese in Europa tali interessi sono tra loro distanti, questo meccanismo ha portato ad alcune distorsioni.
Per coprire il deficit senza aumentare il debito si sarebbe potuto aumentare le tasse. Ma così i governi avrebbero perso voti. Quindi, meglio indebitare lo Stato, lasciando i soldi in tasca agli italiani e illudendoli che avrebbero potuto riempirsele investendo in Bot e Btp. Ma così facendo le tasse non potevano che aumentare comunque, poiché aumentando il debito, aumentano gli interessi da pagare. Con l’aggravante di appesantire il bilancio statale con un onere per gli interessi che oggi supera gli 82 miliardi di euro annui.
Nel frattempo ci hanno guadagnato i ricchi e ci hanno perso i poveri: i titoli di Stato sono stati accumulati da banche, assicurazioni o nababbi per avere una rendita sicura con interessi alti. Interessi, ovviamente, a carico dei contribuenti. Cioè dei lavoratori dipendenti, quelli che le tasse le pagano sempre. E che possedevano solo il 10% del debito totale.
La rendita sicura è stata garantita anche da una tassazione ridicola, fissata in un’aliquota unica del 12,5% dalla riforma Visco del 1997. Con buona pace del criterio di progressività sancito dalla Costituzione. In pratica gli italiani più ricchi hanno pagato meno tasse, in compenso facendo raddoppiare il debito.
Un cortocircuito finanziario che ha contribuito a rendere i ricchi ancora più ricchi e i poveri più poveri. Non è un caso se l’Ocse rivela che negli ultimi 15 anni in Italia la differenza tra ricchi e poveri è aumentata del triplo rispetto alla media europea. Alla faccia dei buoni propositi sulla redistribuzione della ricchezza.
Oggi la situazione è mutata. Complice la sopraggiunta “povertà” delle famiglie italiane, queste ultime hanno drasticamente ridotto la loro percentuale di risparmio in titoli di Stato, mentre è enormemente cresciuta la quota di debito in mano a soggetti stranieri. Esponendo il Paese al rischio di gravissimi problemi.
Il Bollettino statistico della Banca d’Italia sottolinea che dal 1995 ad oggi la percentuale del nostro debito pubblico detenuto da soggetti non residenti è progressivamente cresciuta dal 10% al 50%. E il debito attuale ammonta a 1.844 miliardi di euro, oltre il 120% del PIL, che ci porta ad essere l’ottavo Paese più indebitato al mondo. Questo significa che, ragionando per assurdo, anche se noi italiani per amor di patria regalassimo allo Stato tutto il credito concesso, il debito resterebbe almeno per la metà dell’attuale valore. Per assurdo, perché la maggior parte di quei denari sono costituiti da fondi pensione o assicurativi. E dunque, intoccabili.
A chi appartiene oggi il debito pubblico italiano ?
La risposta l’ha data il New York Times, in seguito alla crisi greca dello scorso anno. La Francia detiene 511 miliardi del nostro debito, pari al 30% del debito stesso e al 20% del PIL d’oltralpe. Il quotidiano della Grande Mela voleva evidenziare che, se il nostro Paese piombasse in una crisi di liquidità, ne soffrirebbe tutta l’area euro, al punto da metterne a rischio la stessa esistenza. Ma c’è un altro aspetto che ci riguarda molto da vicino.
Un Paese che sottoscrive il debito pubblico di un altro, oltre ad investire la propria liquidità e garantirsi un flusso di cassa pluriennale, ne ricava un altro effetto positivo. Calcolabile nel lungo periodo.
Se gli acquisti del Paese creditore sono fatti durante un periodo di crisi (come sappiamo ne è in corso una, e ci siamo dentro fino al collo), il potere negoziale esercitabile è notevole. Il creditore può ottenere in contropartita delle clausole nei trattati commerciali. La Cina, ad esempio, sottoscrivendo il debito greco ha chiesto l’uso del porto del Pireo e che le future navi in dotazione alla marina di Atene siano comperate in Cina.
Il debito ha l’effetto di incrementare le esportazioni dal Paese creditore al debitore, favorendo la competitività delle proprie industrie. E orientando le scelte commerciali (e strategiche) del debitore a proprio vantaggio.
Alla luce di queste considerazioni possiamo comprendere perché il governo non fa nulla per impedire che i colossi francesi acquisiscano aziende italiane. Ma sopratutto perché aveva tanta premura di tornare al nucleare, acquistando le centrali dalla francese EDF.
Ora che il nostro debito non è più “in famiglia”, potrebbero essere proprio le famiglie italiane a pagarne le conseguenze, a cominciare dalle pensioni. E nella peggiore delle ipotesi, con le radiazioni.
Il debito pubblico
Somma del deficit di bilancio statale e degli interessi sui titoli emessi

Il debito pubblico è il debito contratto da uno Stato per far fronte al proprio fabbisogno. I titolari del debito pubblico, ossia i creditori dello Stato in questione, sono tutti quei soggetti che hanno finanziato lo Stato in qualche maniera. Grazie al debito pubblico ogni Stato finanzia la propria crescita economica, i servizi che offre ai suoi cittadini, i suoi investimenti: per questo motivo una corretta gestione del debito pubblico è fra i più importanti compiti di ogni governo.
Gli strumenti tramite i quali uno Stato finanzia il proprio debito pubblico sono diversi. Lo strumento di gran lunga più utilizzato è senza dubbio quello dell’emissione di obbligazioni a medio-lungo termine, o a breve scadenza.

Nel caso dello Stato italiano gli strumenti a medio-lungo termine sono principalmente i Btp (Buoni del tesoro poliennali con scadenza variabile da 3 a 30 anni) e i Cct (Certificati di credito del tesoro).
Per scadenze più brevi il Ministero del Tesoro utilizza invece i Bot (Buoni ordinari del tesoro con scadenza dai 3 ai 12 mesi) e i Ctz (Certificati del tesoro zero coupon con scadenza a 24 mesi). Strumenti simili esistono in tutte le altre nazioni del mondo (celebri per esempio i Treasuries degli Stati Uniti e il Bund tedesco).

Tramite il proprio debito ogni Stato finanzia il proprio deficit, ossia la differenza tra le proprie entrate e le proprie uscite. Compongono le uscite di uno Stato sia la spesa pubblica che l’interesse sul debito (ossia sulle varie obbligazioni come i Bot o i Btp): per questo un debito fuori controllo può diventare un grande rischio per un bilancio pubblico in quanto può comportare un incremento del deficit a causa di interessi montanti e quindi un circuito negativo che può anche portare al default di uno Stato (quando questo diventa insolvente e rifiuta di pagare i propri creditori).
In diversi casi alcune nazioni del mondo sono state costrette, per evitare di essere tagliate fuori dagli investimenti internazionali, a operare forti e dolorosi tagli alla propria spesa e al proprio Stato sociale (per esempio chiudendo scuole, ospedali e altri servizi di utilità pubblica). Per scongiurare una simile evenienza i governi cercano in genere di mantenere sotto controllo i livelli del proprio debito attraverso diversi strumenti.

Oltre alla riduzione della spesa pubblica (nei casi più lievi), uno strumento assai utilizzato è quello del taglio del costo del denaro, ossia dei tassi d’interesse. Un governo che sia dotato di una banca centrale – per esempio quello degli Stati Uniti – potrà abbassare il costo del denaro in maniera che il debito contratto nella sua valuta finisca per “costare di meno”. Nel caso dell’Unione europea la Banca centrale europea regola il costo del denaro e quindi usa la leva monetaria a livello continentale (contemporaneamente nei confronti di tutti i paesi che utilizzano l’euro come propria moneta, l’Eurozona).

Per rimanere sul caso dell’Unione europea va ricordato che i criteri di Maastricht hanno imposto alle varie nazioni europee alcuni parametri di riferimento per salvaguardare la tenuta delle finanze pubbliche. In particolare va ricordato che si chiese alle nazioni di mantenere il proprio debito entro il 60% del proprio prodotto interno lordo, oppure che si dimostrasse questa tendenza (è il caso dell’Italia che ha un debito superiore al 100% del proprio Pil).
Va infine ricordato che lo Stato ha anche altri metodi per ridurre il proprio debito oltre a quello dell’emissione di obbligazioni: nel caso italiano si possono fare gli esempi della raccolta postale, dei libretti di risparmio, dei buoni fruttiferi, dei conti correnti, dei debiti verso la Banca d’Italia, verso altre banche, dei debiti verso soggetti esteri.

Ora sappiamo che la 'barriera' di sicurezza tra i Paesi era un'illusione.
Fino a poco fa, l'Italia e' stata considerata dal mercato come un Paese periferico "sicuro" e molti investitori internazionali hanno aumentato il peso dell'Italia rispetto ai benchmark come un'alternativa all'esposizione nulla su Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. I "tori" dell'Italia hanno motivato questa tesi sottolineando che mentre il rapporto tra il debito del settore pubblico e il Pil e' un preoccupante 120%, l'Italia ha di fatto un debito del settore privato molto piccolo. Oppure che l'Italia e' troppo grande per fallire o ancora che ha un mercato delle obbligazioni di Stato grande e molto liquido, con grandi acquirenti domestici. Oppure che il rapporto debito pubblico/Pil e il suo carico di interessi erano molto peggio nel 1990 e il Paese e' sopravvissuto o che il debito dell'Italia ha una lunga scadenza media. Gli "orsi" dell'Italia sostengono invece che il Paese può essere visto come troppo grande per fallire, ma ciò non significa che questo non possa accadere, ed e' troppo grande per salvarsi.
Oppure che le banche italiane stanno vedendo un lento ma continuo deterioramento nella qualità degli assets. O ancora sottolineano la degenerazione della situazione politica.
Qualunque sia o sia stata la view, la realtà oggi e' che se il prezzo delle obbligazioni dell'Italia, della Spagna o di qualunque altro Paese collassa, il costo del prestito sale.
E quando ciò avviene, i costi degli interessi crescono costantemente e la situazione fiscale si degrada. Questo mette pressione al settore bancario: quando i titoli sovrani dei Paesi periferici esplodono, le banche hanno bisogno di raccogliere sempre più capitale per proteggersi dai costi della futura ristrutturazione dei sovrani, ma questo capitale bancario diventa sempre più costoso proprio nel momento in cui le banche ne hanno maggiormente bisogno.
Inoltre ci sono le agenzie di rating. L'aumento dei costi dei sovrani e dei prestiti bancari porterà al declassamento del rating. Uno dei fattori principali nelle decisioni di downgrade sembra essere il movimento nei prezzi delle obbligazioni. In altre parole, il rating del credito in parte viene abbassato perché il prezzo dei bond scende. Da un lato questo e' razionale, dal momento che gli interessi aumentano quando i rendimenti dei titoli di Stato salgono, e la capacità di credito diminuisce. Quando il genio della fiducia in se stessi esce dalla bottiglia, e' molto difficile farlo tornare dentro. E' un classico circolo vizioso.

Il 30% dei nostri titoli in mano a banche europee
BoT, BTp e CcT hanno un nome inconfondibilmente italiano e vengono emessi dallo stato italiano, ma con i loro 1.580 miliardi in circolazione pesano nel portafoglio degli stranieri, e soprattutto dei residenti europei, almeno tanto risulta dai conti finanziari delle banche e dei risparmiatori italiani. Se non di più. Il debito negoziabile italiano è essenzialmente un debito europeo.
Di statistiche puntuali e ufficiali sull'esatta consistenza dei titoli di stato italiani nei portafogli dei non residenti non ne esistono: ma secondo le stime degli addetti ai lavori circa 700 miliardi di euro di BTp e 90 miliardi tra BoT e CTz si trovano all'estero. I CcT, per poco più di 150 miliardi, e meno della metà dei BTp e BoT sarebbero invece tutti in Italia. Stando agli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali risalenti alla fine del 2010, la quota dei titoli di stato italiani detenuta dalle banche tedesche, francesi e inglesi è superiore all'ammontare dei bond governativi portoghesi, greci e irlandesi posseduti da quelle stesse banche.
La Banca d'Italia stima che nel 2010 gli stranieri abbiano aumentato i BTp e CTz in portafoglio con acquisti netti per oltre 64 miliardi, portando la quota del debito italiano in mano ai non residenti dal 50 al 52 per cento. Gli investitori sono fuggiti da Grecia, Irlanda, Portogallo e persino Spagna e hanno investito in titoli italiani.
Ad oggi, le banche italiane dovrebbero detenere circa 200 miliardi di titoli di stato. A tanto ammontava la quota rilevata dalla Banca d'Italia a fine 2010 e quanto risulta attualmente stando a fonti vicine al ministero dell'Economia. Deutsche Bank ha calcolato che la percentuale dei BTp, CcT e BoT nei portafogli degli istituti di credito italiani lo scorso gennaio orbitava attorno ai 260 miliardi: poi questa esposizione è stata alleggerita ed è calata a circa 190 miliardi, scendendo dal 16% dello stock del debito al 14,5 per cento. I risparmiatori italiani, che prima dell'euro possedevano una percentuale molto consistente di BoT e CcT, con l'arrivo della moneta unica e il crollo dei tassi d'interessi hanno ridotto i loro investimenti in questi strumenti e adesso la loro quota sul totale dello stock del debito in circolazione oscilla tra il 5 e l'8 per cento.
La BnpParibas calcola che solo il 15% dei titoli di stato italiani si trova nei portafogli delle banche italiane, contro il 30% delle banche estere. Una quota pari al 25%, circa 390 miliardi di titoli, è stata collocata nei portafogli dei fondi comuni e delle compagnie di assicurazione italiane. Le banche centrali e i fondi sovrani esteri detengono BTp e BoT per 230 miliardi circa (il 15% di cui attorno al 5% in Banca d'Italia) mentre i fondi stranieri possiedono il 10% dei BTp pari a 155 miliardi. I BTp trentennali si trovano quasi esclusivamente nei portafogli di investitori istituzionali esteri (che tengono i titoli fino a scadenza) basati in Scandinavia, Olanda e Regno Unito.
I BTp tra i 15 e i 30 anni in circolazione ammontano a circa 226 miliardi e sono i titoli di stato che hanno retto meglio l'urto dell'ondata di vendite di questi giorni, con un allargamento contenuto dello spread contro i bond tedeschi, rispetto a quanto non sia accaduto ai BTp a cinque e due anni.
Tra le statistiche più recenti sull'esposizione delle banche estere in titoli di stato italiani, la Bri a fine 2010 registra un importo complessivo detenuto da istituti bancari in 24 Paesi per un controvalore di 261 miliardi di dollari Usa, di cui 220 miliardi in Europa. Le esposizioni delle banche estere in bond governativi greci, irlandesi e portoghesi è inferiore rispetto a quella dei titoli italiani e spagnoli messi assieme.

Gli stranieri hanno venduto: a disinvestire sono stati principalmente gli investitori istituzionali esteri mentre il ruolo degli speculatori, come gli hedge fund, sarebbe stato marginale. Gli italiani non hanno comprato: banche e fondi si stavano leccando le ferite del venerdì nero ed erano sotto shock per la rapidità del crollo.
La liquidità si è prosciugata, il differenziale tra i prezzi di acquisto e vendita si è allargato, la volatilità è schizzata alle stelle: mai così elevata sul BTp a cinque anni dal 1999. Le quotazioni hanno ceduto rovinosamente, i rendimenti con oscillazioni mozzafiato sono saliti su livelli impensabili fino solo a qualche giorno fa. Così, in una seduta storica che rimarrà impressa nella memoria di traders e investitori, i BTp a due, cinque e dieci anni hanno chiuso ieri rispettivamente al 4,25%, 5,20% e 5,71% (+0,44%) trascinando gli spread contro i bond tedeschi sui record di 300, 337 e 305 centesimi (+0,47%). Sforata la barriera dei 300 anche sui credit default swap: secondo Cma, il costo della protezione dei Cds a cinque anni sul rischio-Italia è lievitato chiudendo ieri negli Usa a 303 centesimi dai 249 della chiusura di venerdì.

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Anche Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo, il gruppo degli stati europei periferici con un andamento dei conti pubblici ben peggiore di quello dell'Italia negli ultimi due anni, hanno subìto un tracollo. I Bonos decennali spagnoli hanno sfondato la soglia del 6% chiudendo al 6,06% e avvicinandosi con una velocità seriamente preoccupante al 7% che è considerato un punto di non ritorno, un tasso insostenibile che se dovesse protrarsi nel tempo imporrebbe la richiesta di salvataggio, come avvenuto per Grecia, Irlanda e Portogallo. I titoli GGB greci, irlandesi e portoghesi a tre anni si sono portati rispettivamente sopra il 30%, 18% e 20 per cento. «La crisi di fiducia nell'Europa e nell'euro è stata accelerata dal declassamento di 4 gradini del rating del Portogallo da parte di Moody's perché tra le motivazioni della retrocessione c'è la difficoltà di ritorno del Portogallo sul mercato dei capitali e la conseguente, inevitabile ripartizione delle perdite con partecipazione dei privati, modello-Grecia. Insomma, gli investitori stanno scoprendo che possono perdere il capitale acquistando i titoli di stato europei».
L'Italia non sarebbe stata colpita ieri dalla speculazione né da un problema sui fondamentali, «che non sono cambiati»: «Molti investitori avevano deciso di rimanere sottopesati su Spagna, Irlanda, Portogallo e Grecia e di sovrappesare l'esposizione sull'Italia. Il contagio è arrivato al mercato italiano quando, a causa della persistente incertezza della crisi greca, molti stranieri hanno deciso di ridurre il rischio sull'Italia». Alcuni investitori esteri, dopo un'ottima performance dei titoli di stato italiani nel primo semestre 2011 (i migliori in Europa insieme a quelli spagnoli), hanno deciso venerdì e ieri di disinvestire prima di perdere il guadagno.
Come tutte le tempeste perfette, anche questa si è scatenata per un insieme di cattive notizie a partire dall'irrisolta crisi greca e dall'incapacità della classe politica europea di convincere il mercato sulla solidità e affidabilità della moneta unica. Il progetto del veicolo Efsf, che dovrebbe essere potenziato per estendere la rete di sicurezza, è in alto mare da oltre un anno. Ieri i traders sono rimasti delusi dal mancato intervento della Bce, che avrebbe potuto riaprire il programma di acquisto di titoli di stato sul secondario per sostenere le quotazioni di BTp e Bonos. La debolezza del Governo Berlusconi e l'incertezza sulla tenuta di Giulio Tremonti come ministro dell'Economia, i tempi lunghi e le dimensioni deludenti della manovra 2011-2014, i brutti dati recenti sulla crescita italiana hanno inasprito l'attesa del declassamento dei rating italiani Moody's e S&P.
La capacità dell'Italia di raccogliere fondi sul mercato e ripagare i debiti non viene però messa in discussione dal mercato, che invece dubita della sopravvivenza dell'euro. «L'attacco all'Italia è un attacco alla moneta unica», ha sintetizzato ieri un operatore. E per l'asta di oggi di BoT annuali a 12 mesi per 6,75 miliardi contro i 7,5 in scadenza non si prevedono problemi. Il Tesoro tornerà sui mercati con aste leggere giovedì: in offerta BTp quinquennali tra 0,75 e 1,25 miliardi e BTp a 15 anni tra 0,750 e 1,75 miliardi. Confermata l'emissione di due Btp off-the-run, non più in corso di emissione: un ex decennale e un ex quindicennale per un ammontare complessivo tra 1,5 e 2 miliardi.


E che cos’è lo spread?
Nei titoli di giornale più allarmati per la speculazione finanziaria che in questi giorni starebbe colpendol’Italia, compare spesso un minaccioso “spread” i cui valori sono ai massimi storici dall’introduzione dell’euro. Il termine sta avendo la tipica promozione a uso comune che investe spesso nelle emergenze parole nuove o rare e di cui i media altrettanto spesso trascurano di spiegare chiaramente il significato.
Spread significa “ampiezza”, “apertura” (ma anche “allargamento”, “forbice” in senso figurato) e viene usato oggi per definire la differenza tra il rendimento dei titoli di stato italiani e quelli tedeschi, benché possa applicarsi a diverse coppie di enti paragonabili. Gli stati mettono sul mercato, con aste periodiche, un certo numero di titoli obbligazionari per avere liquidità dai mercati finanziari e potere così finanziare il debito pubblico. Nel caso italiano, si tratta dei BTP (Buoni del Tesoro Poliennali) che, due volte al mese, vengono messi all’asta dalla Banca d’Italia. Hanno scadenza a 3, 5, 10, 15 e 30 anni. Semplificando un po’, lo stato italiano promette all’investitore che, se investirà sul suo debito pubblico (se gli presterà dei soldi), riavrà interamente il suo capitale alla fine del periodo stabilito e in più, prima della scadenza, gli verranno corrisposte periodicamente alcune “cedole” di rendimento.
Su questo rendimento si misura lo spread, solitamente in punti base (basis point). Un punto base è un decimo di millesimo di un valore. Oggi lo spread tra i BTP decennali e i Bund tedeschi (le obbligazioni dello stato tedesco, particolarmente “solide” e per questo utilizzate come riferimento per le altre nazioni europee) è arrivato intorno ai 285 punti base.
Questa differenza è decisa dal mercato: chi vuole investire nelle obbligazioni italiane pensa di correre più rischi rispetto a un investimento in titoli tedeschi, per il peggior stato delle finanze italiane, e quindi vuole un rendimento più alto: oggi i BTP hanno raggiunto, sul mercato, un rendimento a dieci anni del 5,54 per cento circa, mentre i titoli tedeschi sono intorno al 2,71 per cento. Questi dati si riferiscono ai titoli già venduti in passato dalla Banca d’Italia e che ora vengono contrattati sul mercato dagli investitori, determinandone le fluttuazioni del rendimento.

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